Il Tracciolino è forse uno dei sentieri più conosciuti e apprezzati della fascia tirrenica. E si può facilmente intuire il perché anche solo guardando le foto, benché non rendano lontanamente l’idea della bellezza che si respira.

L’accesso al sentiero avviene, generalmente, da due punti: dalla città di Palmi o dalla sommità del monte Sant’Elia, in prossimità delle Tre Croci.

Quello delle Tre Croci è il percorso che scelgo, ed è quello che preferisco, benché la discesa sia piuttosto ripida. È un sentiero che parte da un balcone con vista mozzafiato sullo Stretto di Messina e si dipana zigzagando in un fitto bosco di castagni, pioppi, querce e una miriade di altre piante.

Metto un piede davanti all’altro, non meccanicamente, ma scegliendo con cura dove appoggiare la suola scolpita per evitare di scivolare sul terreno umido. Le piante attorno a me lasciano segni sottili sulla pelle scoperta delle braccia. Alcune superano la mia testa in altezza (ok, non difficilissimo!), nel pieno del loro splendore primaverile. Persino la mia allergia sembra essersi presa una pausa, stupita di fronte a tale rigogliosa pienezza.

Un piccolo scorcio di cielo si apre alla mia sinistra e qualcosa mi fa alzare gli occhi. Decine e decine di falchi pecchiaioli (qui conosciuti come adorni) stanno sfruttando le correnti ascensionali per veleggiare sopra la mia testa e proseguire il loro viaggio verso nord. Lo spettacolo è incredibile. Sono tantissimi e si spostano leggeri senza un solo battito d’ali, quei pigroni. Mi fermo ad osservarli con il mio binocolo totalmente inadeguato e per un attimo mi sento parte di quello stormo. Una piccola macchia bruna su uno sfondo blu brillante.

Lo stormo passa e io riprendo il cammino. Sfioro con le dita la traballante ringhiera in legno che segna, a tratti alterni, il percorso verso il basso, evitando le schegge come un ninja. Sono quasi alla fine della discesa, alla mia destra adesso c’è la tozza costruzione che segna la presenza di un acquedotto.

Supero un albero caduto, ancora qualche metro e sono sull’ampia sterrata che si collega, a destra, alla città di Palmi. Vado a sinistra, dove comincia il sentiero a mezza costa. All’inizio più comodamente, poi sempre più stretto.

Da un lato ho il fianco scosceso di monte Sant’Elia che torreggia su di me con la sua roccia nuda punteggiata dalla scura macchia mediterranea, dall’altro il mare, il cielo, il teatro all’aperto con la “conocchia”, simbolo della tradizione tessile di Palmi. La conocchia era utilizzata dalle donne per filare i tessuti (da canapa, lana, cotone o lino) ma assume anche un significato simbolico. Un uomo, che volesse chiedere una donna in sposa, le portava in dono una conocchia finemente decorata. Più elaborata era la fattura, più grande l’amore che l’uomo dimostrava.

Sopra di me, qualche pecchiaiolo ritardatario continua il suo planare tranquillo, investito dal sole il cui calore, per adesso, mi è precluso dalla parete a picco sul mare. Superato l’ostacolo un nuovo spettacolo mi si presenta davanti. Tutto lo Stretto fin giù, dove l’Etna fumeggia con i residui della neve invernale a vestirla di candida bellezza. La Calabria e la Sicilia che sembrano unite in un bacio salmastro e delicato, i laghetti di Ganzirri, la baia di Bagnara, le isole Eolie allineate dietro un sottilissimo velo di foschia come seta preziosa che cela, senza successo, le curve in un corpo fremente. Mi siedo sul muretto in pietra mentre una lucertola si tuffa, veloce, nella fessura tra due rocce chiare. Il vento tiepido che arriva da sud ovest annuncia un’estate che si avvicina lesta. Proseguendo, noto sul sentiero quella che sembra una condotta in coccio. Sono i resti dell’antico acquedotto che portava l’acqua dai Piani della Corona, a Bagnara, fino alla città di Palmi e segna, per primo, la nascita di questo spettacolare sentiero.

Ora sono al bivio. Alla mia destra, in basso, c’è Cala Leone. Decido di rimanere sul sentiero e proseguire. Attraverso un ombroso boschetto di castagni, forse il più “basso” d’Italia in termini di quota, siamo più o meno a 200 m s.l.m. Cammino, sempre con un leggero senso di incertezza, sul tetto di un vecchio edificio abbandonato che si trova proprio sul sentiero e supero, non senza imprecare un po’, il cumulo di pneumatici abbandonati chissà come da chissà chi. Ora sono all’affaccio su Cala Janculla, una delle calette più belle della Costa Viola, raggiungibile solo dal mare (o, via terra, con un’adeguata attrezzatura!). Mi arrampico sulla roccia da cui si gode una vista superba. Giù, nella cala, il grande scoglio a forma di rana veglia su quel piccolo tratto di costa. In alto un falco pellegrino rimane immobile nella posizione dello “spirito santo” prima di scendere velocissimo in picchiata a catturare la sua preda. Davanti a me, una grande nave da crociera sta per entrare nello stretto. Mi soffermo un po’ a fantasticare sulle vite dei passeggeri. Immagino che qualcuno di loro, una volta rientrato, deciderà di cambiare lavoro o chiederà all’amore della sua vita di sposarlo o dirà all’amore della sua vita che deve lasciarlo. Altri continueranno lì dove avevano interrotto, in una monotona e rassicurante routine.

Raccolgo lo zaino, scendo dalla roccia e spolvero i pantaloni con eccessiva meticolosità. Il sentiero che sto per imboccare non è molto evidente, si intuisce appena tra l’erba che sta ingiallendo in vista della stagione calda. Prima un piede, poi l’altro, mi aiuto con le mani nel tratto più ripido. Attraverso la piccola pianura senza voltarmi, con ancora impressa negli occhi l’ultima immagine prima di risalire. Dal centro presenza mi dirigo alla macchina.

Ci vediamo presto, Tracciolino. È sempre un piacere riconoscerti.


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