Ricordo che il sole si alternava alla pioggia. Attraversammo il paese in auto e, passando davanti alla chiesa sventrata dall’alluvione e dagli anni, pensai che fosse di una bellezza senza tempo, con le pietre grigie e le piante che si facevano strada nelle crepe. Avrebbe potuto essere lì da 100 anni o da 1000 e non avrebbe fatto differenza.

Non era una novità per me, avevo visto altre volte ruderi rivendicati dall’edera e bagnati dall’acqua sottile di novembre, ma in qualche modo era come se fosse la prima volta. Era una consapevolezza diversa.

Mi misi sulle spalle uno zainetto sgangherato, preso in prestito, e cominciai a seguire l’uomo alto che apriva la fila, tra i vicoli del paese semi abbandonato, che presto si trasformarono in sentieri di campagna.

Ecco il sole adesso.

Il verde acquisiva una tonalità brillante sotto i tiepidi raggi, non più incupito dalle basse nubi che pur rimanevano vicine, come a guardia del proprio gregge.

Poi ad un tratto la vidi da lontano, era davvero come me l’avevano descritta. Grande, imponente, misteriosa. Una rada nebbia l’avvolgeva e la sommità era coperta da una persistente nuvola dispettosa. E, nonostante questo, non provocava in me una minore meraviglia. Il monolite più alto d’Europa, la Pietra Cappa.

Ci fermammo prima all’antico romitorio, detto di San Pietro, dove fantasmi di monaci dalla pelle grinzosa e gli occhi gentili si aggiravano oziosi tra le aperture nelle rocche, adesso destinate al ricovero degli animali da pascolo. L’atmosfera era festosa, il gruppo si divideva tra stupiti avventori e impavidi avventurieri che salutavano il mondo dalla cima di Pietra Tonda. L’entusiasmo era contagioso e, in poco tempo, anche i più esitanti erano saliti sulla sommità tondeggiante.

Ancora il sole, ancora per poco.

Ormai non mancava tanto, una bellissima querceta, un casotto con una staccionata che aveva visto tempi migliori ed eccoci ai suoi piedi. Sua maestà Pietra Cappa e noi umili sottoposti.

In lontananza le sue compagne: Pietra Lunga e Pietra Castello, a stento visibili nella coltre di nubi autunnali.

La pioggia ricominciò a scendere in un lento stillicidio, rientrammo nel bosco, la meraviglia non era ancora finita. C’era una chiesa, una volta, disse l’uomo alto che ci faceva da guida, quello che rimaneva era quasi nulla. Parte dei muri, delle colonne abbandonate sul pavimento di terra e rovi e nulla più.

Mi stupì come quel “quasi nulla” potesse evocare immagini, sensazioni e ricordi di qualcosa a cui non avrei mai potuto assistere. Nella mia mente quella chiesa era ancora in piedi, con i mosaici e le colonne in posizione verticale, con il nartece e il tetto fatto di legno e coppi. Si poteva sentire l’odore di cera, fumo e incenso e i passi svelti dei frati in arrivo per la funzione.

Solo un riccio che cadeva da uno dei castagni secolari mi distolse da questa fantasia.

Fu l’ora del pranzo, su un tavolo di legno grezzo, in un casello poco distante. La pioggia non cadeva più e noi spezzammo il pane, insieme, tra sorrisi e meraviglia. Nelle narici, l’odore di bosco e storia.

A.L.


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